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La Chiesa e i giovani

I valori e l’etica

In una società globalizzata come l’attuale ci sono molte cose globalizzate: la finanza, le comunicazioni, la tecnologia, i trasporti sempre più rapidi, i commerci, ma non sono globalizzati i valori. Anzi, alcuni valori, come la solidarietà e la sussidiarietà, per non parlare del bene comune, sono molto in pericolo e, in ogni caso, non fanno parte del tessuto della nostra società: basta vedere l’atteggiamento verso i migranti, la cui circolazione non è affatto globalizzata.
Un altro tema importante è quello dell’etica. Si tratta della scienza del comportamento umano che consente di distinguere il bene dal male e, quindi, di realizzare i valori nei quali crediamo e ai quali siamo stati educati. Ma si tratta di una parola molto consumata e alle volte addirittura equivoca, come dice Benedetto XVI. Ci sono infatti molte etiche possibili. Etica del consenso, etica della situazione, etica di Nietzsche ed etica di Kant. Sono tutte etiche, ma molto diverse tra loro.
I valori che dobbiamo trasmettere, e le norme che proponiamo perché questi valori si incarnino, non sono norme arbitrarie, sono “istruzioni per l’uso”. Così come un computer non funziona se non si eseguono determinate sequenze di operazioni stabilite da chi lo ha fabbricato. Non sono un limite alla libertà, ma le modalità che consentono di realizzarla. Riuscire ad abbandonare questo “estrincesismo” delle norme morali, anche in campo educativo, sarebbe quanto mai importante. Compito dell’educazione è anzitutto quello di decondizionare le persone a cui è rivolta, cioè educare alla libertà. Cosa molto difficile in un mondo dominato dalla moda, dalla pubblicità, da “quello che fanno tutti”.

La responsabilità

Un’altra parola chiave nel campo dell’educazione, e una delle più usate, è responsabilità, che è la capacità di rispondere delle proprie azioni e dei propri comportamenti, rendendone ragione e accettandone le conseguenze. È preoccupante che il nostro mondo giovanile si accodi per larga parte alla tendenza dell’appartenere senza credere, cioè del sentire il cristianesimo come identità
culturale propria senza condividerne la fede. È un programma per gli educatori, chiamati a infondere questo spirito in coloro che devono educare, ma impegnandosi nelle cose che possiamo in qualche modo cambiare. Dobbiamo agire senza perdere di vista la grande e attualissima preghiera di Tommaso Moro: “Signore, fammi impegnare nelle cose che posso modificare; fammi accettare quelle che non posso cambiare e dammi il buon senso per saper distinguere le prime dalle seconde”.

L’educatore

Ci possiamo anche chiedere, quando la Chiesa parla di educazione, chi intenda come educatore. Intende anzitutto Dio come primo educatore: “Senza Dio l’uomo non sa dove andare e non riesce a comprendere nemmeno chi egli sia” (Caritas in veritate 78). Notava il Card. Martini che nessuno ha ricette già fatte e di sicuro effetto in materia di educazione, anzi, non le aveva neppure Gesù, altrimenti la sua opera educativa sui discepoli avrebbe avuto esiti migliori: uno l’ha tradito, un altro l’ha rinnegato e al momento della prova tutti sono fuggiti. Apparentemente non aveva saputo insegnare loro neppure il coraggio nel momento della prova. Il problema è che Dio ha accettato il rischio della nostra libertà e quindi la possibilità che noi diciamo “no” a lui e a chi ci educa in nome suo.
L’educazione è l’incontro di due libertà e questo rapporto non è certamente indolore, anche se contiene tutta l’avventura umana. Un filosofo moderno diceva che anche il calcio in fin dei conti sarebbe uno sport facile, se non ci fosse la squadra avversaria.
Un libro da poco pubblicato di A. Matteo, “La prima generazione incredula. Il difficile rapporto tra i giovani e la fede”, esamina appunto il difficile rapporto tra i giovani e la fede. Vi si trova una serie di interrogativi come questi: perché in chiesa di giovani se ne vedono sempre meno?
Perché, anno dopo anno, scompaiono i gruppi parrocchiali giovanili? Perché i ragazzi si allontanano dagli oratori quando crescono? Perché gli utenti di Facebook, presentandosi, si dicono sempre più atei o agnostici, mentre aumentano i siti web dove “lasciare una preghiera”, “accendere una candela”, “trascorrere un momento di pace”? Perché numerose coppie giovani abbandonano il sacramento del matrimonio e il battesimo per i figli? “La fede cristiana ha subito nell’epoca attuale un processo di opacizzazione della sua capacità di umanizzare, ovvero non convince più quale possibilità di far diventare l’uomo più umano”. I segni di questo disinteresse sono, secondo l’Autore, almeno tre: una profonda ignoranza della Sacra Scrittura, una scarsa o nulla partecipazione alla formazione cristiana dopo la cresima, l’assenza all’Eucarestia domenicale. Questo fenomeno investe i giovani nati tre il 1980 e il 1990, cioè i figli dei genitori che hanno vissuto l’avvento della cultura postmoderna e il suo estraniarsi dal cristianesimo. “È nata così la prima generazione incredula della storia dell’Occidente, figlia dei figli del ‘68”.

Educare ad essere comunità

È bene poi ricordare che, seguendo la pedagogia divina, non siamo chiamati ad educare soltanto i singoli, ma dovremmo educare a crescere anche come collettività, persino come comunità, termine già molto più impegnativo. Il motivo di questo è la natura comunitaria della persona. Non per nulla l’ideale del Murialdo era ed è di “Formare una sola e ben unita famiglia”: è l’ideale che
accomuna tutti coloro che si impegnano a vivere il carisma del Murialdo.
Questa educazione collettiva è oggi più difficile che mai. Un tempo erano le nonne, le madri e le maestre a educare bimbi, ragazzi e giovani alla vita cristiana. Il genitore oggi non è tanto teso ad educare, nel senso di “tirar fuori” le potenzialità del figlio o della figlia dal profondo del suo sé, ma piuttosto tende ad attirare il figlio a sé, a compiacerlo, a saturare o a prevenire ogni suo bisogno. Non ex-ducere, quanto se-ducere. I genitori sono talvolta incerti sulla propria identità e temono di perdere l’affetto dei figli se pongono loro una chiara direzione nel processo di crescita.
Essi oggi sono disponibili ad affrontare anche grandi sacrifici per i figli, ma non sono capaci di chiedere sacrifici ai figli per timore di perderne l’affetto.

La sfida educativa oggi

Possiamo ora raccogliere alcune delle emergenze educative di oggi.
Anzitutto quella dei fini: oggi si ha paura a parlare dei fini dell’educazione, mentre si fa un gran parlare di mezzi e strumenti da applicare a fini diversi che ciascuno si sceglie. Basti pensare a quanto è successo per l’educazione sessuale nelle scuole italiane, che è ancora di là da venire, perché i laici vorrebbero un insegnamento neutro, tecnico, mentre i cattolici sostengono che non esiste un insegnamento neutro, in quanto ogni insegnamento è anzitutto comunicazione
ininterrotta di pensiero, per dire che “l’educaziome sessuale non si può ridurre a un’istruzione tecnica con l’unica preoccupazione di difendere gli interessati da eventuali contagi o dal “rischio procreativo”.
I giovani si trovano di fronte a una cultura tecnologica o tecnocratica, anonima e potente, che produce mezzi affascinanti, ma non dà scopi, offre una serie infinita di possibilità,ma non dà criteri sensati di scelta. Si ha perciò l’impressione che l’educazione serva soprattutto a insegnare come adattarsi al nostro mondo attuale per usarne meglio le opportunità che offre, anziché a dare forma a un soggetto in modo che possa essere autenticamente umano.

Il dono e le relazioni

Uno dei punti d’appoggio per ricominciare a ritrovare il senso dell’educazione è quello che il Papa chiama “la dimensione del dono e del gratuito (Caritas in Veritate 34)”. L’uomo è un essere donato. Nessuno può darsi la vita e nessuno può attribuirsi da solo un’identità. Nessuno può diventare adulto da solo. La felicità, però, dipende soprattutto dalla qualità delle relazioni che riusciamo ad
avere. Sono i rapporti primari che vanno coltivati e ai quali è necessario educare i giovani, con tanta pazienza, ma anche mostrando e soprattutto testimoniando il loro valore. Si tratta del luogo dove si è amati per quello che si è, non per quello che si fa.
È nella relazione familiare che inizia il nostro cammino. Un mondo senza famiglia sarebbe inconcepibile. Non si tratta di qualche cosa di aggiunto alla nostra identità. È il cuore stesso della nostra identità. La famiglia vive di cose molto concrete, ma insieme ad esse produce un bene immateriale insostituibile, la relazione. La famiglia è il luogo in cui sperimentare la fiducia, imparare
a fidarsi, poter mostrare le proprie debolezze senza per questo essere espulsi.
È il luogo in cui siamo unici e insostituibili, dove veniamo riaccolti e perdonati.
E queste sono tutte cose gratuite.

L’emergenza educativa

Il Papa sottolinea l’importanza del problema educativo e osserva un’emergenza educativa dovuta essenzialmente a due ragioni. La prima è un falso concetto dell’autonomia dell’uomo, che crede di potersi sviluppare da sé, come un “io” senza il dialogo con un “tu” e la comunione con un “noi”. La seconda ragione è lo scetticismo e il relativismo che escludono due riferimenti importanti: la natura e la Rivelazione. Purtroppo la natura sembra essere vista solo come meccanicismo, come luogo di manifestazione di leggi, e la Rivelazione si vede “senza contenuti per tutti e per sempre”.
Così si perdono anche i riferimenti e i valori della storia, della memoria, della cultura, della sapienza vera che è capace di educare il pensiero, gli affetti e il giudizio di ogni uomo e del giovane, in particolare. I luoghi dell’educazione, principalmente la famiglia, la scuola e la parrocchia, debbono essere credibili e stabilire relazioni di vicinanza, lealtà e fiducia (qui risuonano le relazioni di “amicizia, fraternità e paternità” suggerite da S. Leonardo Murialdo). Il superamento del relativismo potrà avvenire anche per via di un’accresciuta valorizzazione in ambiente scolastico delle scienze della natura e della cultura scientifica, in genere; in particolare, nel contesto attuale in cui il problema ecologico si pone con più insistenza all’attenzione di tutti e in cui i risultati tecnologici avvalorano la veridicità delle teorie scientifiche. La scuola non dovrà essere vista solo come luogo di preparazione professionale, per un titolo di studio da esibire, ma dovrà essere vista soprattutto come luogo della ricerca della verità e delle vestigia di Dio nella natura. Dalla natura si può risalire al senso profondo della vita. Il giovane, aprendosi alle verità della scienza (quella del vero scienziato, che è umile e sereno, non saccente e aggressivo), si può aprire alla verità di Dio che è scritta nella natura e nella Rivelazione e, in definitiva, incamminarsi con gioia e concretezza alla verità di se stesso, dell’uomo come persona (“io”) e come società (“noi”), ritrovandosi nella
storia di salvezza che Dio gli offre.

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